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Da Montone al Libano: la scelta di un nuovo inizio

Monastero "Sant'Agnese" di Montone (PG)
Monastero "Sant'Agnese" di Montone (PG)

Nel cuore silenzioso dell’Umbria, tra le mura antiche del Monastero di Sant’Agnese a Montone, per oltre cinque secoli le Clarisse hanno assicurato una presenza fatta di preghiera, lavoro e servizio agli abitanti del Borgo arietano. Ma ora quella storia si appresta a compiere una svolta radicale: le sorelle lasceranno il monastero per fondare una nuova comunità nel cuore del Libano martoriato.

Abbiamo incontrato Suor Gloria Paoletti, ultima vocazione della comunità montonese, che ci ha raccontato le ragioni di questa scelta audace e il sogno di una testimonianza silenziosa, radicata nel Vangelo e aperta all’incontro con l’altro.


Intervista di Alessandro Vestrelli


Suor Gloria, questo monastero è attivo da secoli a Montone.

Può raccontarci brevemente la sua storia e l’impegno sociale delle suore?

«Il primo documento presente in archivio è un atto notarile che risale al 1560, ma già dalla fine del '400 alcune donne conducevano vita comunitaria in stile francescano. Dopo la Grande Guerra, accolsero le orfanelle, in seguito aprirono l’unico asilo del paese. Dopo la Seconda Guerra mondiale le suore aiutarono, per quanto era nelle loro possibilità, la gente del paese, a volte anche privandosi del proprio cibo per sfamare i bambini. Negli anni Sessanta, con le giovani donne di Montone, avviarono un laboratorio di maglieria legato a Luisa Spagnoli, offrendo lavoro a molte.

Oggi la clausura ci impegna in una vita fondata sulla fraternità, la preghiera e il lavoro: abbiamo una foresteria per accogliere chi cerca silenzio e spiritualità; un laboratorio di iconografia con corsi aperti anche ai laici».


Dopo il Concilio Vaticano II, molto è cambiato anche nei monasteri…

«Sono entrata 18 anni fa in una comunità anziana ma “aperta”, di larghe vedute. Suor Angela, montonese, già anziana, fu la prima a mettermi a mio agio con umorismo e affetto. Questa simpatia e umanità mi colpirono. Le suore che avevano vissuto il pre Concilio avevano accolto sul serio lo spirito del Vaticano II. Si interrogavano sul vero significato della clausura, concludendo che essa non è mai in opposizione all’ascolto e all’incontro con l’altro. Nel ristrutturare il monastero decisero di togliere le grate fisse e di metterne di apribili. Un piccolo segno che esprimeva uno stile nuovo. Quando nel 1984 il terremoto rese inagibile il monastero, le monache decisero di ristrutturare prima la foresteria e poi la parte monastica; a ribadire l’ideale dell’accoglienza.

Cambiamenti e segni che esprimevano una rivoluzione concreta, fatta da donne semplici, ma capaci di cambiamento».


Cosa vi ha spinto a lasciare Montone?

«Sentivamo che il Signore ci chiamava a una “vocazione nella vocazione”. Fummo molto colpite dalla vicenda dei monaci trappisti dell’Abbazia di Tibhirine, uccisi in Algeria nel ’96. La loro scelta di restare accanto alla popolazione musulmana nonostante i pericoli, la loro fedeltà al Signore e alla comune vocazione monastica ci ha interrogate a lungo. Quel seme, piantato tanti anni fa, oggi porta frutto anche nella nostra storia.

Personalmente conoscere l’islam mi ha profondamente toccata e, in vista della fondazione in Libano, l’anno scorso ho avuto la grazia di studiare a Roma arabo e teologia islamica al Pontificio Istituto di Studi Arabi e islamistica (PISAI). Ma l’idea di una fondazione di Clarisse in Libano ha radici lontane: tutto iniziò dieci anni fa quando arrivò un invito da padre César Essayan, frate francescano conventuale, oggi Vicario apostolico per i latini in Libano. All’inizio dicemmo di no, poi quattro anni fa, all’interno della Comunità, con tutto l’Ordine delle Clarisse Urbaniste d’Italia e con l’Ordine dei frati, è iniziato un serio discernimento che ci ha condotte a tuffarci in questa nuova avventura».


Clarisse con le piccole sorelle a Hermel
Clarisse con le piccole sorelle a Hermel

Avete scritto che si tratta di una chiamata “missionaria”…

«Non nel senso del “proselitismo”; andremo in punta di piedi, desiderose di imparare e di ascoltare. L’icona biblica che rappresenta ciò che vorremmo essere in Libano è quella della Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta: donne che si incontrano, nella carità, nel servizio reciproco, bambini che si riconoscono sin dal grembo materno, lo Spirito Santo all’opera nonostante le differenze e che crea la comunione. Qualcuno ci ha chiesto: “ rimarrete Clarisse?”

Rispondiamo sorridendo: “certo!”. Si tratterà di capire la forma di clausura più adatta al contesto che ne espliciti il valore autentico e profondo.

Inoltre il Vescovo libanese ci ha chiesto di essere “orecchio di donne per le donne”, soprattutto le donne musulmane; è il motivo per cui ci stiamo molto impegnando con la lingua araba».


Il Libano è una terra fragile, anche pericolosa. Dove vi stabilirete?

«Abbiamo effettuato già tre viaggi. Abbiamo conosciuto famiglie profughe dalla Siria che ci hanno accolto con gioia e condivisione, abbiamo conosciuto la realtà dei cristiani libanesi, abbiamo lì molti amici. Vivremo nella Valle della Beqã, in un villaggio misto: cristiani e musulmani.

Continueremo a vivere del lavoro delle nostre mani, pensiamo di impiantare un frutteto, proseguire con i corsi di iconografia e la produzione di icone».


Avete avuto esperienze con i musulmani anche a Montone?

«Sì, abbiamo molti amici musulmani qui in Italia. Per noi non esistono “ i musulmani” in generale, ci sono i nostri amici: Said, Karima, Fatima, Daoud, Khadija, e gli altri…

Alcune donne di Montone le abbiamo avvicinate al monastero con una semplice distribuzione di vestiti e poi siamo diventate amiche; e in seguito sono arrivate le confidenze, le storie… Abbiamo imparato a custodire».

Montone - Ingresso al Monastero
Montone - Ingresso al Monastero

Cosa l’affascina dell’islam?

«La preghiera intrecciata alla vita, non separata da essa. In Libano ho sperimentato una condivisione radicale: famiglie povere che ti offrono tutto. Mi affascina la loro smisurata fiducia nella Provvidenza».


Vi sentite vicine a figure come Charles de Foucauld o Carlo Carretto?

«Moltissimo. La nostra è una testimonianza di vita. Non vogliamo “fare”, ma “essere”. A Hermel, piccolo villaggio a nord del Libano, abbiamo incontrato le Piccole Sorelle di Gesù, ne è nata una bella amicizia; con loro ci capiamo al volo, ne condividiamo lo stile e il linguaggio, anche se le nostre forme di vita sono diverse».

Con amici famiglia siriana
Con amici famiglia siriana

I montonesi sono dispiaciuti. Vivono la vostra partenza come una perdita non solo spirituale ma anche culturale e storica. Il sindaco Mirco Rinaldi vi ha rivolto un accorato appello a restare. Come avete accolto la loro reazione?

«Con gratitudine e dolore. Qui abbiamo vissuto anni bellissimi. La vicinanza fisica alla chiesa parrocchiale ha permesso che si instaurasse un legame forte con la comunità. Purtroppo, però, la crisi vocazionale avrebbe portato comunque alla chiusura del monastero».


Lettera del Sindaco di Montone
Lettera del Sindaco di Montone

E che fine farà la struttura del monastero?

«Ancora non lo sappiamo. Abbiamo proposto l’acquisto alla Diocesi e al Comune, ma non ci sono state le possibilità. Il Dicastero per la Vita Consacrata si è raccomandato di trarre dalla vendita del monastero un ricavato giusto, dato che in Libano dovremo costruire la nuova “casa”. Per l’immobile montonese speriamo in un uso sociale e ci stiamo adoperando in questa direzione».


Quando partirete?

«A gennaio/febbraio 2026. Per i primi due anni il Vescovo libanese ci metterà a disposizione un piccolo convento lasciato da altre suore a Beirut. Nel frattempo, costruiremo il nostro monastero».

Valle della Beqã - Libano
Valle della Beqã - Libano

State pregando molto per la pace?

«Ogni giorno. Il mondo è in fiamme e guidato da follia. La guerra non risolve. Mai. Papa Francesco si è consumato sino alla fine dei suoi giorni spendendo parole e facendo gesti concreti per la pace e Papa Leone sta facendo altrettanto. Nel tempo del nostro discernimento in merito alla fondazione, il pontificato di Francesco è stato fondamentale. I suoi documenti e l’intero suo magistero ci hanno accompagnate e guidate; pensiamo all’enciclica Fratelli tutti, al documento di Abu Dhabi, a tutti i suoi viaggi apostolici in Medioriente e nei paesi musulmani».


Ha mai incontrato Papa Francesco?

«No, ma la nostra abbadessa, sr. Damiana, sì. Due volte! Lui era radicato in Cristo. Accoglieva tutti: carcerati, omosessuali, transessuali, atei. In lui si incarnava la frase di S. Paolo che dice: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Quando nel mondo religioso si parla di “perfezione”, credo fermamente che l’unica perfezione a cui tendere sia la carità, l’assomigliare a Cristo. Null’altro».


Siete unite in questa scelta?

«Sì, al 100%, pur nella diversità. Siamo consapevoli delle difficoltà che ci aspettano, ma determinate a seguire Cristo. È una nuova avventura. E ci affidiamo a Lui».


La storia di Suor Gloria e delle sue consorelle è quella di una fedeltà che non si accontenta di rifugiarsi nel passato, ma osa abitare le fratture del presente. In un mondo segnato da muri e sospetti, da guerre dimenticate e religioni strumentalizzate, cinque donne scelgono il cammino della condivisione silenziosa, della prossimità senza pretese, della fraternità disarmata.

Non ci saranno proseliti né proclami, solo una porta aperta, una stanza per l’ascolto, un campo da coltivare. Il Vangelo vissuto accanto ai più poveri, nella convinzione – come diceva Charles de Foucauld – che non si tratta di “convincere”, ma di “gridare il Vangelo con la vita”.

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