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Demografia, beni comuni e mercato del lavoro: una relazione multidimensionale

Aggiornamento: 10 giu 2023

di Enrico Giovannetti (1) e Paola Bertolini (2)



1. Premessa

Nel numero 1/2022 della rivista Nuove Ri-generazioni Umbria,(3) il dossier sulla demografia propone un interessante esercizio: stimare la speranza di vita delle comunità umbre attraverso il rapporto tra popolazione e tasso medio di variazione – in generale negativa - della popolazione stessa nei diversi comuni. Il quadro che emerge fa pensare ad un futuro distopico caratterizzato da una progressiva estinzione delle comunità nell’arco di un paio di secoli. L’era covid ci ha mostrato immagini di strade deserte da uomini, ripopolate da animali di ogni specie: sarà questo il futuro dell’Umbria? La “natura” si riapproprierà dello spazio abbandonato dall’uomo? Le diverse specie di animali troveranno nuovi ricoveri tra le mura di borghi trasformati in ghost-town, come Scoppio sui Monti Martani o Umbriano in Valnerina?

La speranza di vita delle comunità, così come viene calcolata, è però solo un indicatore, una “spia rossa” che si accende sul cruscotto per segnalare un malfunzionamento. In realtà, l’interpretazione del destino demografico di una “comunità” è un’operazione assai più complessa che trascende il mero calcolo dell’evoluzione probabilistica dell’alternarsi delle diverse generazioni, espresso dal tasso di fertilità. Ad esempio, la caduta demografica non è certamente oggi un problema planetario (https://ourworldindata.org/world-population-growth); se ci sono voluti migliaia di anni per portare la popolazione mondiale ad un miliardo, ne sono bastati duecento per portare l’equipaggio dell’“astronave Terra” agli attuali 8 miliardi.

Dato questo quadro complessivo di espansione demografica globale (almeno per il prossimo ventennio), a livello locale il tema demografico si trasforma inevitabilmente in un problema di andamento di flussi migratori.

Quindi, per comprendere il futuro demografico di una comunità, è necessario discriminare le diverse forze che guidano l’equilibrio o, più in generale, il disequilibrio della presenza/permanenza sul territorio di una determinata quota di popolazione autoctona o immigrata. Di conseguenza, anche il tasso di natalità in una determinata comunità, che si potrebbe erroneamente pensare guidato solo da scelte genitoriali individuali è, in realtà, condizionato dalle stesse forze.

Utilizzando lo schema analitico proposto da J.Diamond in Collasso,(4) il futuro demografico di una società dipende da quattro fattori:

a) la capacità di una comunità di rigenerare l’ambiente eco-sociale che le ha permesso di vivere;

b) la capacità di fare previsioni realisticamente corrette sull’andamento delle variabili che influenzano gli equilibri eco-sociali di una comunità;

c) le relazioni positive/negative con l’ambiente socio-economico esterno;(5)

d) la capacità delle istituzioni rappresentative di una comunità nel riconoscere e dare (o tentare) risposte innovative ai problemi eco-sociali emergenti.

Ad esempio, ricordando ancora l’esercizio di stima, citato in apertura, la crisi demografica analizzata (bassi tassi di natalità/saldo migratorio negativo) in che rapporti si trova con i quattro fattori ricordati? In che misura la caduta della popolazione è causa, o al contrario, l’effetto dell’interazione negativa delle diverse variabili eco-sociali indicate da Diamond?

Nel corso della presente riflessione cercheremo di discutere più in dettaglio, e su scala locale, le cause probabili della crisi demografica. A questo scopo, utilizzeremo alcuni indicatori che possono aiutare a rispondere ai quesiti posti sopra. In particolare, l’obiettivo finale è cercare di comprendere meglio la capacità delle istituzioni “locali” di far fronte ai problemi di sostenibilità/resilienza di una comunità.


2. Assetti demografici a confronto

I due grafici in Figura 1 mostrano due strutture demografiche profondamente diverse: quella relativa all’Italia, che registra un profondo squilibrio generato dalla caduta demografica, dai flussimigratori non compensativi e dall’invecchiamento; a destra, invece, una struttura demografica equilibrata, congruente con tutte le nazioni del Nord Europa (Norvegia, Danimarca e Finlandia). Tale struttura può essere utilizzata come benchmark ideale o, in ogni caso, come un possibile esempio di esito positivo nelle relazioni tra azione istituzionale, mercato del lavoro e relativa sostenibilità dello sviluppo, in grado di tenere relativamente più in alto il tasso di natalità e, dunque, in equilibrio la struttura della popolazione.

Figura 1 – Struttura della popolazione per genere e classi di età in Italia e Svezia



Se la struttura della popolazione svedese (o dei paesi del nord EU) mostra con chiarezza la drammaticità della transizione demografica italiana – per ragioni di scala e differenze istituzionali – non può certo essere utilizzata per spiegare lo specifico assetto demografico in Umbria. Dunque, è necessario un cambiamento nelle unità di analisi: a questo proposito, nella parte 3, utilizzeremo ilconfronto tra indicatori costruiti su scala locale, relativi ad Umbria e Trentino Alto Adige/Sud Tirolo(TAST), estratti dal report ISTAT sugli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (BES)(6).È ragionevole tale confronto? Le due regioni possono essere utilizzate l’una come controfattuale dell’altra? La nostra ipotesi di partenza è che il paragone tra le due aree – sia nelle similitudini, sia nelle differenze – sia possibile e utile per le seguenti ragioni:

a) entrambe le regioni hanno ampie aree interne montane con i rischi di spopolamento che ne conseguono;

b) in Italia, nella classifica per numero di abitanti per regione le due aree si posizionano al 17° posto, l’Umbria, e al 16° il TAST;

c) la struttura produttiva è largamente simile, anche se su scala diversa (Figura 2).

Figura 2 - Confronto tra le strutture economiche di Umbria e Trentino Alto Adige/Sud Tirolo (2019)



Fonte: ISTAT

Dal confronto emergono anche differenze importanti, comunque utili per l’analisi che seguirà:ad esempio, è possibile notare una più marcata presenza del settore manifatturiero in Umbria, e una maggiore incidenza del settore agroalimentare e turistico per TAST. Ma la differenza più importante non è nella struttura, bensì nella scala delle due economie. Infatti, se si osserva ancora la Figura 2, si nota che la scala relativa al TAST ha valori doppi rispetto all’Umbria: in sintesi, il TAST con un 25% della popolazione in più rispetto all’Umbria – ma con un sistema produttivo simile – produce circa il doppio, ponendosi al primo posto nella classifica del PIL pro-capite nelle diverse regioni italiane.

Il TAST è l’unica regione italiana ad avere una crescita positiva della popolazione ed una struttura demografica – pur se lontana dal caso svedese – assai più equilibrata. In particolare, se confrontiamo l’assetto delle due regioni, l’Umbria ha un tasso di incremento naturale di -7,2% (-13,3% mortalità; +6,1% natalità), contro l’incremento naturale del TAST pari al -0,9% (-9,7%mortalità; +8,7% natalità). La Figura 3 mostra per il TAST una maggiore incidenza dei giovani nelleclassi d’età attive (aree evidenziate nella Figura 3). Nelle stesse classi, è visibile anche l’importanza degli immigrati come fattore compensativo della caduta della popolazione: il saldo migratorio per il TAST è 1,9% contro il solo 0,1% in Umbria. Infine, la Figura 3 mostra la maggiore presenza degli anziani in Umbria, con il 43,2% della popolazione regionale sopra i 64 anni, rispetto alla popolazione da 0 a 14 anni (seconda regione in Italia dopo la Liguria), contro il 33,6 per il TAST.(7)

Figura 3 - Struttura della popolazione per genere, classi d'età e provenienza in Umbria e in Trentino A.A./Sud Tirolo (2021)




Fonte: elaborazione propria su dati ISTAT, https://demo.istat.it/#sezione3

È necessario ora un breve chiarimento preliminare circa le ipotesi che guideranno l’esercizio che segue.

La differente “produttività” delle due regioni, evidenziata in precedenza dal diverso livello

assoluto del VA su una popolazione di dimensioni non troppo difformi, può essere un punto analitico chiave nell’interpretazione dei diversi assetti demografici delle due regioni, mostrati nella Figura 3.

In prima approssimazione, si potrebbe pensare che le differenze demografiche evidenziate abbiano come sola variabile esplicativa la profonda diversità della “produttività” e, dunque, nei redditi disponibili nelle due regioni. Ma che cosa vuol dire “produttività doppia” quando l’unità di analisi è il territorio? Data la quasi completa congruenza dei settori produttivi tra le due regioni – e dato che nei singoli settori non ci possono essere salti tecnologici così rilevanti da raddoppiare il prodotto per addetto – la conclusione potrebbe essere (e molti odierni “neo-lombrosiani” sarebbero propensi a sostenerla) che il TAST è popolato da individui il doppio più alacri degli umbri.

Questa errata conclusione deriva dal riflesso condizionato prodotto dalla cultura economica standard, che immagina tutte le differenze nelle condizioni di vita degli individui determinate dalla produttività (marginale/personale) dei singoli; segue che la media in un territorio non sarebbe determinata altro che dalla sommatoria delle produttività individuali.

Un pregiudizio ideologico che ipotizza che i redditi siano legati alle oggettive condizioni tecnologiche (statiche e neutrali) in cui avviene la produzione di Valore Aggiunto (VA); in questa ipotesi non si tiene conto delle condizioni sociali in cui si sviluppano le regole vigenti sul mercato del lavoro e, dunque, dell’assetto organizzativo della produzione. In particolare la produttività è misurata dal rapporto VA/ADDETTI, dove gli addetti sono il numero dei lavoratori occupati FTE(8); il VA è la somma dei salari W e dei profitti P,ovvero VA=(W+P); in sintesi, i redditi prodotti e distribuiti in seguito al processo produttivo. Quindi il calcolo della produttività può essere scritto (WW+PP)/ADDETTI.

Segue che, a parità di Addetti, se i salari scendono, o vengono tenuti costantemente bassi – soprattutto a causa di una politica economica ostila qualunque tutela delle condizioni lavoro e nelle regole di assunzione – la produttività tenderà scendere o a rimanere costantemente bassa nel corso del tempo. Si potrebbe però sostenere che, se salari non salgono, possono salire i profitti tanto da incentivare – prima o poi – la crescita economica.

Tuttavia, ancora una volta, l’argomentazione è sorretta da un pregiudizio ideologico tipico della cultura economica standard, che ignora due potenti componenti negative, indotte dalle relazioni industriali orientate a bassi salari. Le due componenti negative sono le seguenti:

a) il ritardo nel flusso di investimenti innovativi di imprese che cercano un recupero di redditività (ovvero di capacità di competere) attraverso una politica di salari bassi e pessime condizioni di lavoro;

b) il peggioramento delle condizioni concorrenziali – soprattutto per la formazione di rapporti monopolistici nelle filiere, tra imprese capofila e imprese subfornitrici, sempre più deboli contrattualmente, proprio per il ritardo negli investimenti di cui al punto a).

In sintesi, se è vero che in economia la cattiva moneta scaccia la buona, è altresì vero che la cattiva impresa tende a scacciare la buona impresa con una concorrenza al ribasso nella qualità e nelle condizioni di lavoro. Tutto questo ha effetti devastanti anche sulle condizioni di vita, e dunque sulle variabili demografiche, determinando progressivamente le differenze osservabili nei diversi territori.

In un recente intervento sul quotidiano La Repubblica, (9) il rettore della Bocconi Billari, indica le ragioni delle differenti evoluzioni demografiche di Germania e Italia proprio nelle diverse politiche sociali adottate in modo “bipartisan” in Germania: la prima linea politica è di periodo lungo, in difesa e sostegno della natalità; la seconda linea riguarda le politiche di breve periodo per la gestione dei flussi migratori mirati, con il preciso obiettivo di ricoprire i “buchi” demografici.

Purtroppo l’intervento – che condividiamo pienamente – nell’analisi trascura il rapporto tra le politiche auspicate e le regole vigenti sul mercato del lavoro dei due paesi e, soprattutto, la differente cultura relativamente alle politiche sociali. Nel suo intervento Billari propone due misure: le politiche di conciliazione non solo femminili, ma fondate sull’equità di tempo reso disponibile alla coppia genitoriale, retribuito e non interscambiabile, come avviene nel caso svedese: gli effetti demografici di tali politiche sono ben visibili nella Figura 1. La seconda linea d’intervento riguarda invece le politiche di inclusione e nell’accoglienza, non di “braccia”, ma di famiglie di migranti, scelte sulla base del fabbisogno di competenze. In Italia invece, entrambe le politiche sono giudicate – anche qui in modo “bipartisan” – insostenibili per le imprese e per le finanze pubbliche. In realtà, ciò che viene giudicato insostenibile é che entrambe le politiche avrebbero l’effetto di fissare, di fatto, degli standard salariali minimi e condizioni di lavoro opposte alla precarietà e alla tolleranza di lavoratori “invisibili”. Torneremo su questo punto nelle conclusioni.


3. Analisi comparata degli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile in Umbria e in Trentino Alto Adige/Sud Tirolo

Se è vero che gli assetti demografici sono strettamente connessi al reddito e alla qualità della vita – quindi al tipo di funzionamento del mercato del lavoro – quali sono allora le condizioni favorevoli che spingono verso un livello alto e una buona qualità dello sviluppo? L’idea che sembra più ragionevole è discutere il problema della caduta demografica osservando il grado di riproduzione del capitale sociale o, più in generale, lo stato di conservazione dei beni comuni di cui può disporre una comunità. Infatti la demografia, anche se caratterizzata da sue specifiche leggi interne, è un processo largamente determinato dalla disponibilità di capitale sociale e dall’accesso a beni che rendono esigibili, nei fatti, i “diritti” all’esistenza della popolazione nelle diverse fasce di età.

Non è possibile affrontare in dettaglio gli aspetti teorici della definizione di “bene comune” di “capitale sociale”. In breve, si può pensare alla produzione di tutti i beni comuni come a processi eco-sociali resi sostenibili da opportune dotazioni di capitale sociale, necessarie per garantire l’accesso al bene stesso e alla sua riproduzione nel corso del tempo. Ad esempio, il bene comune “acqua” non è soltanto la quantità di H2O disponibile in un bacino idrico, bensì l’insieme delleinfrastrutture, delle regole e delle risorse destinate al processo di captazione, sanificazione,conservazione, distribuzione, rigenerazione e re-immissione in natura. Al tempo stesso, però, è sempre necessaria un’assunzione di responsabilità da parte di tutti coloro che rivendicano un diritto di accesso al bene comune, sia acqua potabile, oppure “ambiente pulito”: ad esempio, nella produzione e gestione degli scarti è necessario considerare le risorse indispensabili al buon funzionamento del processo di smaltimento e riciclaggio dei rifiuti come prioritarie nella gerarchia dei consumi privati e collettivi, e non negoziabili.

I “beni comuni” non sono però solo i beni naturali (acqua, aria, ambiente fisico). Per la sopravvivenza di una comunità sono altrettanto importanti beni di natura sociale: salute, istruzione, competenze, cultura, qualità dell’abitare, inclusione ed equità nelle condizioni di vita. Il covid dovrebbe aver ricordato a tutti il significato della salute come bene comune e delle risorse necessarie per difenderla.

Cercheremo ora di analizzare come la presenza di tali beni possa essere correlata anche ai diversi assetti demografici osservati. A tale scopo utilizzeremo specifiche misurazioni, calcolate su base regionale, disponibili nel rapporto ISTAT sul Benessere Equo e Sostenibile (BES). I differenti indicatori sono raccolti in dodici gruppi:


1. Salute (15 indicatori; rapporto BES ’21, pp. 51-53)

2. Istruzione e formazione (15 indicatori; rapporto BES ’21, pp. 73-75)

3. Lavoro e conciliazione dei tempi di vita (15 indicatori; rapporto BES ’21, pp. 87-89)

4. Benessere economico (11 indicatori; rapporto BES ’21, pp. 101-103)

5. Relazioni sociali (9 indicatori; rapporto BES ’21, pp. 117-119)

6. Politica e istituzioni (12 indicatori; rapporto BES ’21, pp. 129-131)

7. Sicurezza (12 indicatori; rapporto BES ’21, pp. 143-145)

8. Benessere soggettivo (4 indicatori; rapporto BES ’21, pp. 157-159)

9. Paesaggio e patrimonio culturale (11 indicatori; rapporto BES ’21, pp. 177-179)

10. Ambiente (21 indicatori; rapporto BES ’21, pp. 205-20

11. Innovazione, ricerca e creatività (12 indicatori; pp. 225-227)

12. Qualità dei servizi (16 indicatori; rapporto BES ’21, pp. 239-241)


Non è possibile nello spazio disponibile presentare e discutere tutti i 153 diversi indicatori.

Riporteremo dunque solo alcuni esempi relativi al mercato del lavoro e alla valutazione del capitale sociale. Per rendere possibile la rappresentazione grafica, la metodologia seguita è stata quella di rapportare le singole misure di ogni indicatore al relativo dato nazionale, posto uguale a 100. Gli indicatori sono dunque ricalcolati come scostamenti percentuali dalla rispettiva media nazionale. Ad esempio, per il gruppo “Lavoro e conciliazione dei tempi di vita”, il confronto grafico è riportato in Figura 4. Come si vede, posti uguali a 100 i valori relativi all’Italia, è possibile effettuare una valutazione comparativa tra Umbria e TAST. In particolare, la regione Umbria mostra condizioni sempre peggiori in tutti gli indicatori: tasso di occupazione, mancata partecipazione al mercato del lavoro, trasformazione da lavori precari a lavori stabili, dipendenti con paga bassa, tassi d’infortunio,ecc. (con l’eccezione della permanenza nel precariato). È altresì opportuno notare che non sono pochi gli indicatori che mostrano, in entrambe le regioni, una condizione migliore rispetto all’Italia.

La Figura 5 confronta invece indicatori tradizionalmente utilizzati per misurare il “capitalesociale” presente in una comunità. Ancora una volta non è difficile notare come la regione TAST“sovrasti” in tutte le dimensioni l’Umbria, una regione che comunque mostra valori sociali migliori(o non peggiori) rispetto alla media italiana.

Figura 4 – Lavoro e conciliazione dei tempi di vita (indicatori del gruppo 3). Confronto Umbria, TAST e Italia



Fonte: elaborazione propria indicatori BES ’21


Se lo spazio lo consentisse, la stessa metodologia d’analisi potrebbe essere riportata anche agli altri 10 gruppi, ma le conclusioni generali non cambierebbero. Si può tentare altresì una sintesi generale aggregando i differenti indicatori dei 12 gruppi, in due insiemi per ogni gruppo: da in lato, viene calcolato il valore medio di tutti gli indicatori che indicano punti di forza e, dall’altro, il valore medio degli indicatori relativi ai punti di debolezza delle due regioni (Figura 6). Emerge ancora un quadro generale in cui i punti di forza sono sempre minori - mentre maggiori sono i punti di debolezza- per l’Umbria rispetto al TAST. Il confronto con la situazione italiana, mentre non cambia la posizione del TAST, mostra invece particolari punti di debolezza per l’Umbria (efficienza dei servizi e capacità innovativa; cattive condizioni di lavoro e conciliazione e una forte percezione di degrado ambientale). Non è dunque un caso la manifestazione del senso di malessere soggettivo particolarmente alto in Umbria, anche rispetto alla media italiana.

Figura 5 – Qualità delle relazioni sociali (indicatori gruppo 5). Confronto Umbria, TAST e Italia



Fonte: elaborazione propria indicatori BES ’21

Figura 6 - Gli indicatori BES aggregati: confronto Italia, Umbria e TAST



Fonte: elaborazione propria indicatori BES ’21

In Umbria il quadro generale mostra, dunque, una condizione relativamente peggiore nelle dotazioni del capitale sociale e nell’accesso ai beni comuni (sistema sanitario e formativo; qualità dell’ambiente e degli stimoli culturali; protezione della risorsa Lavoro). Tutti gli indicatori BES sono fotografie in un momento del tempo, ma rappresentano anche quelle interazioni eco-sociali che contribuiscono a determinare gli effetti, positivi o negativi, di lungo periodo sullo sviluppo e, di conseguenza, sulle variabili demografiche: scelte di genitorialità, direzione e qualità dei flussi migratori.


4. Conclusioni

Dalla lettura dei dati la prima reazione istintiva potrebbe essere chiedersi quali politiche siano necessarie per invertire la crisi demografica; su quali problematiche, segnalate dai differenti indicatori, dobbiamo scegliere di intervenire in modo prioritario. In realtà, la domanda preliminare potrebbe invece essere un’altra: quali comunità abbiamo come riferimento nel disegnare le politiche?

Come si disegnano i confini di una comunità in grado di muoversi autonomamente su un sentiero di sviluppo sostenibile e quindi in grado di riprodursi anche da un punto di vista demografico? Quali insiemi di civitas possono essere aggregate in nuove polis e diventare unità di analisi in interventi di area vasta? Non è meglio chiedersi quali polis possono essere aggregate in area vasta per mantenere o generare una civitas resiliente alle sfide attuali e future?

Una prima ipotesi, circa le difficoltà di elaborare delle politiche di contrasto al degrado demografico, è che il territorio umbro sia frammentato in troppe unità amministrative, troppo deboli per essere incisive sul piano delle scelte di politica economica, troppo vincolate da rivalità ataviche per superare conflitti d’interesse locali e sviluppare un’efficace azione comune di area vasta.

Dall’analisi preliminare dei dati, confrontando Umbria e TAST, quell’ipotesi preliminare si è rivelata, se non errata, certamente insufficiente: in Umbria i comuni sono 92, con una popolazione media di 9335 abitanti per comune (densità: 101 abitanti per km2); nel TAST i comuni sono il triplo (282) e la popolazione media è di 3807 abitanti (densità: 79 abitanti per km2). Quindi, nonostante il numero di abitanti maggiore, la popolazione per comune del TAST è circa un terzo di quella dell’Umbria.

Sembra quindi di essere di fronte ad un paradosso: per il TAST – a differenza dell’Umbria, delle altre regioni appenniniche centrali e, in generale, dai territori caratterizzati da ampie aree montane – la remoteness sembra rappresentare un elemento di forza e non di debolezza. In realtà, la maggiore dotazione di capitale sociale (ampie reti di relazioni economiche, cultura della cooperazione e della partecipazione, settori dell’economia civile molto estesi e radicati, responsabilità sociale delle imprese) rende più omogenea, efficace e sincronica l’azione delle istituzioni locali, con forti effetti di contenimento della popolazione, inclusività e maggiore ottimismo nelle scelte genitoriali. Sul piano dell’efficacia delle politiche, queste condizioni positive disegnano i confini di una comunità maggiormente resiliente, consapevole dei rischi dei mutamente ambientali, aperta agli scambi e in grado di attrarre nuove risorse dal suo “esterno”, con istituzioni che hanno dato prova di capacità innovativa economica e sociale. Ricordiamo due esempi tra i molti possibili: l’evoluzione e il ruolo dei consorzi nell’agroalimenare e la gestione dei comprensori sciistici.

Per l’Umbria la condizione generale appare meno favorevole (anche se certamente migliore di altre regioni e aree del paese). Rimane sullo sfondo il problema della frammentazione delle istituzioni; tuttavia il caso del TAST indica essere non tanto un problema di numero di unità amministrative presenti in un territorio, bensì della qualità delle relazioni sociali ed economiche tra le comunità locali; in altre parole, ciò che appare importante è la capacità di estendere l’economia civile di comunità anche frammentate a livello istituzionale.

Da dove iniziare per invertire la rotta?

La risposta è semplice ma assai impegnativa: nello sforzo costante di mantenere ed estendere le dotazioni di capitale sociale, il massimo impegno delle istituzioni dovrebbe essere diretto in particolare nella progettazione delle politiche e nella destinazione delle risorse a favore dei giovani. Le “piramidi della popolazione” osservate in Figura 2, mostrano una caduta della popolazione soprattutto nelle classi d’età 0-30 anni: questo significa che meno giovani “produrranno” sempre meno giovani. Inoltre, anche i soli indicatori presentati nella Figura 4 e Figura 5, mostrano un percorso che vede– a parità di presenza di eccellenti università in entrambi i territori – i giovani umbri “più formati” dei loro coetanei, con una maggiore propensione a proseguire gli studi. Se però confrontiamo questo con i giudizi sulla qualità del lavoro, gli stipendi e le prospettive occupazionali si intravede una spinta latente alla mobilità verso condizioni ritenute più appropriate sul piano normativo/salariale o più stimolanti e, in generale, con maggiori opportunità. Da un lato, se è vero che per un giovane le esperienze fatte lontano dal proprio campanile sono estremamente formative e auspicabili, dall’altro lato, è anche da considerare il danno permanente al patrimonio famigliare e al capitale sociale di una scelta di mobilità all’esterno non reversibile.

Anche se, in un paese come l’Italia, proporre le istituzioni di Utopia è un esercizio sterile, è comunque necessario porsi continuamente il problema di quali siano le politiche più idonee per la costruzione di comunità resilienti. In Umbria, in modo apparentemente paradossale, sono stati gli eventi estremi e la ricostruzione delle Urbes – almeno fino al 2016 – a favorire e stimolare le Civitates.

Seguendo la riflessione proposta, la crisi demografica pone ora il problema opposto: mantenere e ricostruire la civitas per mantenere il valore della Urbs. I dati commentati non restituiscono un quadro incoraggiante, anche se non drammatico come per altre regioni italiane specie, ma non solo, del Mezzogiorno.

Come esempio conclusivo, sembra utile ricordare la straordinaria opportunità persa con la gestione delle risorse destinate al “reddito di cittadinanza”. Infatti, se il provvedimento aveva le proprie radici nella ragionevole necessità di contrastare la povertà estrema, tuttavia aveva il limite di proporre un sostegno al reddito e non alla cura delle potenzialità di lavoro che tutti -indipendentemente dallo stato di salute e della condizione sociale – possono esprimere. E’ attraverso il lavoro che si costruiscono le identità dei cittadini, i loro percorsi sociali, le interrelazioni attraverso cui si costruiscono i gruppi sociali e le comunità, i percorsi innovativi e di sviluppo individuali e collettivi. In altre parole, il lavoro è molto di più del reddito che conferisce al lavoratore. Non è un caso che il primo articolo della Costituzione Italiana richiami il tema del lavoro – e non del reddito - come fondamento stesso dello Stato. Dunque è il lavoro, e non il reddito, di cittadinanza da ricercare, ad esempio, nella lunghissima lista di bisogni pubblici che ogni sindaco potrebbe facilmente stilare.

Lavoro da rivolgere soprattutto ai giovani, ai tanti, troppi Not in Education, in Employment or in Training (il 18,7% in Umbria; 13,5% nel TAST; 23,3% la media nazionale)(10). Il punto però non è immaginare l’ennesimo intervento di contrasto alla disoccupazione giovanile (trasformato spesso in sussidi all’impresa, distorsivi del mercato del lavoro), bensì pensare a misure in favore dei beni pubblici e comuni, volte ad incentivare in particolare l’impegno dei giovani nella comunità.

L’obiettivo potrebbe essere quello di investire in tutti quei settori dell’economia civile che, come si è visto nel caso del TAST, non hanno solo effetti positivi sulla qualità della vita di un’intera comunità, ma hanno effetti identitari importanti, indispensabili per orientare e stabilizzare le scelte migratorie e di genitorialità.

Infine, è bene non trascurare il principale vincolo alle politiche sociali e, dunque, alle politiche demografiche: la volontà di mantenere, ad ogni costo, le condizioni di basso salario e alta “flessibilità” nell’offerta di lavoro. Tale idea, comune a tutte le filosofie elaborate dalla peggiore destra liberista, hanno pervaso la cultura economica accademica e, a seguire, l’elaborazione delle politiche e l’orientamento prevalente nelle relazioni di lavoro.(11)

In particolare, il punto che più interessa sottolineare è che l’effettivo esercizio dei diritti di accesso ai beni comuni (ad esempio, istruzione e sanità pubblica di qualità) e la disponibilità di capitale sociale (istituzioni efficienti e in grado di tutelare i diritti), possono essere considerati a tutti gli effetti “beni salario”. Segue che tutte le condizioni favorevoli all’equilibrio demografico sono innetto contrasto con la filosofia dei bassi salari e della precarietà. Dato questo contesto, una misura per quanto male progettata come il reddito di cittadinanza, ha avuto l’effetto positivo di introdurre nel sistema un chiaro punto di riferimento, in grado di misurare quanto sia basso il livello del salario di fatto, per una platea straordinariamente ampia di lavoratori non tutelati, che finivano per preferire il reddito di cittadinanza ad un salario infimo.

Analoghe considerazioni, ancora più stringenti per il rapporto diretto con l’andamento demografico, possono essere portate a sostegno alla determinazione del salario minimo universale per tutti i settori dell’attività economica. Purtroppo, in un quadro culturale bipartisan ostile ad ogni proposta di tutela effettiva delle condizioni di vita e di lavoro dei più deboli, anche le autorevoli proposte di politica demografica, come quelle espresse dal rettore della Bocconi Billari, saranno sempre parole scritte sulla sabbia.


1 Centro Analisi Politiche Pubbliche (CAPP), Dipartimento di Economia Marco Biagi, Università di Modena e Reggio Emilia; enrico.giovannetti@unimore.it

2 Centro Analisi Politiche Pubbliche (CAPP), Dipartimento di Economia Marco Biagi, Università di Modena e Reggio Emilia; paola.bertolini@unimore.it

3 Andrea Chioini “Dossier Demografia”, Nuove Ri-generazioni Umbria, n.1, 2022; p.15

https://www.nuoverigenerazioniumbria.com/_files/ugd/fbf023_23eb3f6f11734cf4b9982638e80d87b7.pdf

4 Jared Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere, Einaudi, 2005.

5 Il punto c) riassume due temi che Diamond tiene distinti: le relazioni commerciali e di scambio con le popolazioni limitrofe; le minaccie e i conflitti per ragioni territoriali e/o controllo delle risorse

6 AA.VV. BES 2021. Il benessere equo e sostenibile in Italia, ISTAT, Roma, 2022;

https://www.istat.it/it/files//2022/04/BES_2021.pdf.

7 https://demo.istat.it/tavole/?t=indicatori&l=it

8 Un addetto Full Time Equivalent (FTE) corrisponde ad una risorsa disponibile a tempo pieno per un anno

lavorativo, che è quantificato in media in 220 giorni di lavoro (365 giorni esclusi sabati, domeniche, ferie e festività varie),che per 8 ore di lavoro fanno 1760 ore di lavoro

9 Francesco Billari, “Migranti e natalità”, La Repubblica, 27/3/2023

10 I valori indicano le percentuali di giovani NEET sulla popolazione della stessa età (tra 15 e 29 anni); valori aggiornati al settembre 2021. https://www.asr-lombardia.it/asrlomb/it/neet-e-neet-rate-15-29-anni-e-sesso-regionale

11 Marta Fana, Simone Fana,Basta salari da fame, Economica Laterza, 2019

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