di Lucio Caporizzi
Il tema dell’assistenza sanitaria e, conseguentemente, di un funzionamento del Servizio sanitario è senz’altro uno dei più sentiti dai cittadini, non solo per la evidente importanza che tale tema – e, in connessione, la tutela della salute – riveste per la vita di tutti noi, ma anche perché tutti noi, prima o poi, ci troviamo a dovere fruire di servizi di assistenza sanitaria.
È, al tempo stesso, percezione diffusa – spesso rilanciata da sbrigative valutazioni di politici e “studiosi” – che il servizio pubblico sia poco efficiente ed afflitto da sprechi, ancorché con notevoli differenze tra le diverse regioni italiane.
Ciò ha contribuito a fare dell’Assistenza sanitaria pubblica la “vittima sacrificale” preferita di tutta una serie di manovre di contenimento della spesa pubblica che, almeno fino all’insorgere della pandemia, hanno fortemente colpito il Servizio sanitario nazionale.
Dopo la vivace crescita conosciuta nel periodo dal 2001 al 2008, per anni, a seguito della crisi dei debiti sovrani seguita, in Europa, alla crisi dei mutui subprime importata dagli USA, le manovre di bilancio attuate dai vari Governi tendevano ad “aggredire” la spesa sanitaria, rimasta per 7 anni inchiodata intorno ai 110 mld di euro, ponendo rigidi limiti al reclutamento del personale piuttosto che alla farmaceutica convenzionata.
L’approccio era quello chiamato “starve the beast” (“affama la bestia”, dove la “bestia” era, appunto, il sistema sanitario pubblico), nella convinzione che in tal modo, stringendo i cordoni della borsa, il sistema fosse costretto a muoversi sul sentiero di una maggior efficienza. Gli effetti di queste politiche, con il conseguente indebolimento dei servizi, in particolare nel livello di assistenza territoriale, si sono poi drammaticamente manifestati con l’insorgere della pandemia. I dati ed i confronti internazionali sono impietosi.
In termini di quota di Pil (fonte OCSE) nel 2022 la spesa sanitaria pubblica italiana valeva il 6,8%, contro il 10,3% della Francia, il 10,9% della Germania, il 9,3% del Regno Unito, il 7,3% della Spagna.
La variazione complessiva della spesa sanitaria pubblica nel periodo 2016-2022 è stata in Italia di + 6,6%, mentre il Regno Unito ha fatto segnare un + 25,4%, la Germania +25%, la Francia +24,8% e la Spagna +19,8%.
Solo nel 2022, a seguito dell’emergenza Covid, le unità di personale, dopo un decennio di continua riduzione, hanno di poco superato i livelli del 2008, mentre la relativa spesa, cioè i redditi da lavoro dipendente, restano in valore reale inferiori al 2008.
L’allungamento delle liste d’attesa che ne consegue ha portato alla crescita della spesa privata al di fuori del SSN (spesa cosiddetta out of pocket), anche qui con valori italiani del tutto fuori scala rispetto ai partner europei.
Sempre nel 2022, in Italia la spesa sanitaria diretta a carico delle famiglie ha raggiunto un valore pari ad oltre il 21% di quella totale, contro il 9% della Francia e l’11% della Germania.
Questo progressivo processo di privatizzazione, oltre a pesanti conseguenze dal punto di vista dell’equità sociale, non ha neanche effetti positivi in termini di efficienza produttiva, dato che – a causa anche dell’altissima asimmetria informativa che caratterizza il settore (il famoso “me l’ha ordinato il dottore”) - i sistemi sanitari privati risultano più costosi di quelli pubblici, come dimostra, per esempio, l’enorme costo di quello statunitense.
Il quadro sopra delineato si presenta differenziato ove si vadano ad esaminare le diverse situazioni e relative performance a livello regionale. Il Servizio sanitario umbro, oggetto da alcuni anni di una “narrazione” poco positiva in termini storici, in realtà presentava indicatori di tutto rispetto.
Utilizzando il metodo della Griglia LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) – metodo poi sostituito dal Nuovo Sistema di Garanzia (NSG) - il Ministero delle Salute collocava l’Umbria nel 2019, con un punteggio complessivo di 211, al quinto posto tra le regioni italiane, con una variazione positiva rispetto al 2012 di ben 40 punti, tra le migliori del panorama italiano. Scomponendo per i 3 livelli di assistenza (Prevenzione, Distretto, Ospedale), l’Umbria si collocava, sempre nel 2019, bene nella Prevenzione con riferimento alla gestione delle anagrafi animali e nell’Ospedale relativamente ad un indicatore di appropriatezza come la bassa incidenza dei parti cesarei primari.
Non brillava in tema di pazienti trattati in ADI (Assistenza domiciliare integrata), dove però si sono avuti miglioramenti anche grazie alle risorse del PNRR, e neanche nel consumo procapite di farmaci sentinella/traccianti.
Gli anni del Covid non hanno certo contribuito a migliorare la situazione, creando, tra gli altri, un problema di allungamento di liste di attesa a volte spropositato. Chi scrive si è visto proporre una visita specialistica circa un anno dopo la relativa prescrizione e questo non risulta certo essere un caso isolato.
L’acquisto di consistenti “pacchetti” di prestazioni presso strutture private, al fine di mitigare le criticità, non pare avvenga previa un’attenta valutazione in merito alla convenienza sull’alternativa tra make or buy, cioè se convenga acquistare all’esterno oppure investire all’interno ampliando la propria capacità produttiva.
La “transizione digitale” non pare avere fatto grandi progressi, come attestano le facce smarrite di operatori sanitari di fronte ad utenti che si presentino agli appuntamenti per una visita od un esame sprovvisti di adeguate quantità di carta, dato che hanno prescrizione, prenotazione e ricevuta del ticket tutto in formato digitale sul cellulare!
Nonostante i tanti proclami, il sistema umbro resta ancora fortemente centrato sul livello di assistenza ospedaliero, con una perdurante debolezza, quindi, del livello territoriale.
L’Umbria è priva ormai da diversi anni di un Piano Sanitario Regionale come pure di un Piano Sociale e le reciproche interconnessioni in un’ottica di integrazione socio-sanitaria (che rappresenta il “cuore” dell’operatività delle Case di Comunità), mancando, quindi, di uno schema programmatico organico aggiornato, cioè, che recepisca e declini a livello regionale gli indirizzi nazionali.
In tale quadro si evidenzia il timido recepimento (limitato ad atti secondari), a livello regionale, di un fondamentale provvedimento nazionale – figlio in buona parte dell’emergenza Covid – come il DM n.77 del novembre 2022, che dà attuazione alla riorganizzazione delle cure fuori dall’ospedale, in attuazione, anche delle Missioni 5 e 6 del PNRR.
Il perseguimento del diritto alla salute è una battaglia che non può essere vinta a prescindere dal territorio.
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